Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
La Prima Repubblica non si scorda mai, con le sue liturgie arabescate e le voluttuose mediazioni parlamentari, l’arco costituzionale e il sistema bloccato dalla Guerra fredda, i patti a geometria variabile e i contropatti caliginosi concepiti all’ombra delle segreterie di partito, i governi balneari o a scadenza ravvicinata e quelli ombra, la sensazione di una continuità politica fondata sulla frammentazione dello spazio e del tempo, delle sigle e dei nomi di volta in volta sacrificati e recuperati.
Nata nel secondo dopoguerra, ingrassata sulle spoglie dello stato sociale totalitario, consumata dalla propria ingordigia e infine decimata da Tangentopoli, oggi la Prima Repubblica proietta la sua ombra larvale su quel che resta di una classe dirigente ammaccata da un referendum sanguinario – quello del dicembre scorso sulle riforme costituzionali – e costretta al frastornato inseguimento di una nuova rotta elettorale imposta dalla Consulta. Perché ancora una volta sono stati loro, i magistrati, a incaricarsi di volgere la ruota e dichiarare chiuso il ciclo, sbaraccando per sentenza gli ultimi lacerti di un bipolarismo più o meno coercitivo seminato nella terra inaridita del renzismo.
Se il ventennio berlusconiano ci aveva reso di nuovo ghibellini e guelfi assatanati, la prosecuzione del berlusconismo con altri mezzi e aggiornati si è infranta sul muro di gomma d’una invalicabile certezza: la Repubblica dei partiti e la sua Carta costituzionale si sono dimostrate più persuasive d’ogni vagheggiamento riformista. Non è bello ma forse occorre farsene una ragione. Ci aveva fatto un po’ sognare Matteo Renzi, sì, il bambino di Firenze che mangiava i comunisti della vecchia nomenclatura. Poi s’è fatto improvvisamente adulto e ha creduto di bastare a sé stesso, sfidando senza metodo le rendite, i poteri e i rari ma pesanti pregi dei corpi intermedi che lo separavano dal contatto diretto con il popolo. Disintermediazione, la chiamava lui, e nelle premesse non era poi così diversa dall’annichilimento dell’aristocrazia feudale praticato da Luigi XIV nella Francia del Seicento. Nacque la monarchia assoluta e fu il prologo in cielo della Rivoluzione giacobina che un secolo dopo avrebbe decollato Luigi XVI. E appunto come un Re Sole ma senza testa, punito dagli elettori e bastonato dalla Consulta che gli ha mutilato l’Italicum, adesso Renzi si sta intestando una solipsistica battaglia per votare quanto prima, purchessia, poco importa se le leggi elettorali vigenti sono due, entrambe brutte, difformi tra loro.
L’ex premier è sicuro di poter raccogliere ancora il 40 per cento nei seggi, se il Pd lo seguirà, potendo così stornare l’incubo del proporzionale, la necessità di cercare accordi parlamentari a urne chiuse pur di sbarrare il passo ai barbari dei 5 Stelle. Renzi inclina all’ordalia, fa parte del suo stile acerbo e un po’ bullesco, la sua impresa donchisciottesca merita rispetto. Peccato solo che si sia, e ci abbia, cacciato lui in questa drôle de guerre fin dal momento in cui, per meglio perdere il referendum, ha sconfessato la sua legge elettorale dopo averla prima proclamata un modello da esportare. E peccato per lui che, comunque vada a finire, difficilmente Renzi tornerà monarca privo di manutentori a fianco e alternative preconfezionate dietro l’angolo.
E se il renzismo senza Renzi avrebbe avuto un suo fascino come fenomeno di rottura sociale e ringiovanimento culturale (elettrificazione più Leopolda, diciamo), Renzi senza il renzismo che senso avrà? Qui subentra, come un cattivo presentimento, la teoria dei sedicenti suoi amici e degli arcinemici che sognano di farne una cosa a metà tra Giulio Andreotti e Mariotto Segni, ovvero l’immortale della Prima Repubblica e l’eroe suo malgrado, ma anche la prima vittima, della Seconda.
Col che torniamo all’assunto iniziale, indossato per amor d’iperbole ma non senza qualche ragione. Lo ripetiamo con le parole dispensate da Angelo Panebianco, scienziato della politica, sul Corriere della Sera di domenica scorsa: «I giochi sono ormai chiusi. Siamo tornati, dopo un giro durato quasi un quarto di secolo, alla casella di partenza. L’esito del referendum e la sentenza della Corte sulla legge elettorale fanno rinascere la “democrazia proporzionale” in stile italiano: le alleanze di governo si decidono dopo il voto, mai prima e i governi che si formano sono fragili, incoerenti, soggetti ai ricatti quotidiani dei vari gruppi parlamentari (opposizioni comprese), per lo più di vita breve. Quella forma di governo ci accompagnò per tutta la Guerra fredda e solo la sua fine ci permise di abbandonarla». A sottolineare la bellezza del concetto, un tuìt consentaneo di Mattia Feltri, editorialista e inviato della Stampa: «A quelli che volevano votare per scegliersi il premier: col #proporzionale non lo sceglieranno mai più. Saranno patti e inciuci dopo il voto».
La malmostosa controfigura
Meno inconsolabile di Panebianco e Feltri, nella rinverdita foresta primorepubblicana Silvio Berlusconi potrà far giocare alla sua Forza Italia una partita simile a quella del Partito socialista craxiano negli anni Ottanta: il Cav. non ha i numeri per tornare a vincere e comandare, dispone però di forza sufficiente per impedire agli altri di governare in solitudine. La minoranza di blocco è l’investimento politico del momento e in Italia, come noto, ce ne sono tre. Del Pd si è detto, resta il Movimento 5 Stelle. La vasta tribù grillina, allergica com’è alla logica delle alleanze, si candida come l’ultimo bastione a vocazione maggioritaria. Il che la rende più che paragonabile al Pci di Enrico Berlinguer, di cui rappresenta se non altro la nemesi storica, l’escrescenza collaterale e punitiva della “questione morale” sollevata dall’allora segretario comunista nel 1981, intervistato da Eugenio Scalfari, e che segnò lo slittamento dalla logica del “nessun nemico a sinistra” a quella del “nessun nemico in procura”. La folla pentastellata ha già imparato a evocare in piazza «Ber-lin-guer!» (su invito di Gianroberto Casaleggio, nel maggio del 2014 a San Giovanni). Grillo e il suo direttorio sanno che il sistema – e quando diciamo sistema non intendiamo soltanto la Repubblica dei partiti ma pure quella dei poteri finanziari – si organizzerà per lasciargli tutt’al più l’amministrazione di comuni e altri enti locali. Modello Pci, appunto. Quanto ai così detti sovranisti di Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) e Matteo Salvini (Lega), rischiano di avviticchiarsi al tronco morto della protesta antisistemica o di languire nell’angolo buio in cui vorranno cacciarli i teorici del nuovo arco costituzionale antifà.
Ricordiamoci in conclusione che anche oggi, come all’inizio degli anni Novanta, «l’economia italiana è terra di conquista per le imprese straniere» (Panebianco), con la non marginale novità rappresentata dall’irruzione dell’incognita trumputinista sulle macerie della vecchia pax americana. Ma siccome la Prima Repubblica non si scorda mai, auguriamoci che la sua malmostosa controfigura riesca almeno a produrre qualcosa di simile a una legislatura costituente. Sempre che esistano i costituenti.
Vignetta Vincino
Fonte: http://www.tempi.it/ostaggi-della-prima-repubblica
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