Dopo anni in cui benefici del commercio venivano esaltati da quasi tutti gli economisti ed opinionisti economici pare che adesso i risultati si scoprano essere molto meno positivi. Gli studi di Dani Rodrik e di David Autor, due insigni economisti di Harvard e del MIT, mostrano come gli effetti distributivi del commercio siano stati fondamentali per la nascita dei partiti populisti. Quando un paese sviluppato commercia con un paese molto meno sviluppato e labour-abundant (come ad esempio la Cina), l’effetto finale sarà contraddistinto dal fatto che i lavoratori meno qualificati dei paesi più sviluppati subiranno una riduzione dei salari mentre i detentori del capitale osserveranno un netto miglioramento della loro condizione. Vale invece l’inverso nel paese meno sviluppati dove i lavoratori guadagneranno e i detentori del capitale perderanno.
Nei paesi più sviluppati la diseguaglianza aumenterà mentre nei paesi meno sviluppati la diseguaglianza subirà una riduzione. Il risultato finale sarà quindi la riduzione della diseguaglianza globale ma un aumento della diseguaglianza all’interno dei paesi più sviluppati. Ecco così spiegata la vittoria dei populisti: gli sconfitti della globalizzazione si prendono la loro rivincita votando un protezionista che renderà più difficile commerciare e delocalizzare la produzione, cercando così di evitare gli effetti perversi della globalizzazione sui loro salari.
A questo punto i sostenitori della globalizzazione, che finalmente pare inizino ad ammettere gli effetti perversi che questa ha avuto, ribattono che, grazie alla globalizzazione, miliardi di persone sono uscite dalla povertà e che quindi i pochi sconfitti della globalizzazione dovrebbero vedere il bicchiere mezzo pieno.
Il ragionamento presuppone però che il cittadino medio di un paese sviluppato valuti la sua utilità almeno pari all’utilità del cittadino medio del paese sottosviluppato, assunzione difficilmente sostenibile per chi propone delle argomentazioni basate su un sistema etico di tipo utilitarista. Perché mai il disoccupato americano dovrebbe essere contento per il lavoratore cinese medio che lavora al suo posto?
Il vero grande problema che non si comprende è che per far funzionare la globalizzazione si devono eliminare gli Stati nazionali, ma per poterlo fare, i cittadini di quegli stati devono essere disposti a fare sacrifici per i cittadini di altre nazioni distanti: serve quindi un’etica globale. Adam Smith, da sempre citato come il liberista per eccellenza (mito ormai sfatato da molti studi sul suo pensiero), ci ha insegnato, nella “Teoria Dei Sentimenti Morali”, che l’uomo si preoccupa più per il suo amico a cui viene amputata una gamba che invece per i milioni di persone morte a causa di un terremoto in Cina. L’etica globale è inconsistente e praticamente impossibile, non è altro che una vuota utopia di un costruttivista (liberale o socialista che sia).
C’è sicuramente un motivo se nella parabola del buon samaritano si dice che si deve aiutare il prossimo e non invece il più povero di tutti che però si trova a migliaia di chilometri di distanza: solo la vicinanza crea un legame etico a cui si può rispondere in modo naturale e adeguato. L’ideologia di chi pensava agli Stati nazione come ad un giocattolo del passato ci ha portato dove siamo oggi, sarebbe quindi meglio guardare ai fatti della realtà e non alle nostre costruzioni intellettuali che finiscono per scontrarsi con la realtà dei fatti: gli uomini vivono in spazi definiti e il loro legame etico non può che essere diretto, per primo, verso individui con cui hanno elementi in comune (a meno che non ci si trovi in una situazione di emergenza).
Edoardo Cefalà
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Fonte: http://www.ilconservatore.com/economia/senza-la-formazione-unetica-unica-la-globalizzazione-destinata-fallire/
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