È interessante notare che dopo circa 200 anni dalla nascita delle prime democrazie moderne periodicamente si ritorni a questo argomento di discussione: il popolo non sa o non saprebbe governarsi. Il popolo non ha la competenza necessaria a governarsi. E alla parola popolo si può dare l’estensione che si vuole. Infatti, ricordiamo, che per “popolo” non si è mai inteso la totalità degli esseri umani che compongono la comunità. Prima gli ateniesi escludevano donne, meteci e schiavi e alcune altre categorie. Nel corso dei secoli quando anche alcuni tentativi di democrazia si sono messi in piedi, e poi dalla rivoluzione francese e americana in poi, sempre si sono escluse delle categorie. Chi non possedeva terra. Chi non pagava le tasse. Chi non aveva la pelle bianca. Chi non sapeva scrivere. Chi non era maschio… La ragione era sempre che non avevano la competenza o la saggezza necessaria, o l’interesse a governare.
Curiosamente la questione della competenza viene posta nella quasi totalità dei casi da parte di chi ha già il potere verso quelli che lo richiedevano, o da parte di chi crede di possedere quella competenza in quanto possessore di quella particolare caratteristica verso quelli che quella caratteristica non l’avevano o possedevano. I nobili verso i borghesi che erano semplici possidenti senza lignaggio. I borghesi possidenti verso chi non aveva terre o mezzi e non poteva pagare tasse. Gli uomini dalla pelle bianca verso quelli con un altro colore. I maschi verso le femmine. Gli acculturati verso gli analfabeti… gli anziani verso i giovani. In una memorabile sentenza, Elmer Eric Schattschneider (1), uno dei maggiori scienziati politici statunitensi messosi in luce dopo la II G.M., ebbe a scrivere che «la democrazia è stata creata per i cittadini, e non viceversa.»
Nelle moderne democrazie c’è un primo modello che possiamo chiamare politica della «virtù civica». Esso esprime una vita politica straordinaria e perfino eroica. I cittadini partecipano attivamente alla politica perseguendo l’obiettivo del bene pubblico o dell’interesse generale, animati dalla qualità della virtù civica. Al di là delle doti che presentano nel privato, nella vita pubblica i cittadini sono pronti a sacrificarsi e ad impegnarsi alacremente in vista del bene collettivo. (2) Questo modello di vita politica ha una lunga storia, a partire dai filosofi politici della Grecia classica, con particolare riferimento ad Aristotele, continuando con l’Umanesimo del Rinascimento italiano, poi con i pensatori politici della rivoluzione americana e così via. Per mezzo della sua associazione storica con l’idea di governo repubblicano, la centralità della virtù civica è ricondotta a ciò che viene chiamato repubblicanesimo classico.
Alcune eccezioni presenti nella storia confermano la difficoltà di realizzare l’ideale classico negli Stati di grandi dimensioni. Quando Roma si trasforma da Città-Stato a impero, mantiene la struttura politica e costituzionale originaria, escludendo dal diritto di cittadinanza e partecipazione alla vita pubblica una fascia via via crescente di popolazione. Come i Greci, i Romani non riuscivano ad accettare, e forse nemmeno a concepire, che affinché gli ideali del governo repubblicano potessero sopravvivere in uno Stato di grandi dimensioni, le assemblee dei cittadini dovessero essere sostituite da organismi elettivi. Come nella Repubblica veneziana dove, benché le sue dimensioni territoriali e demografiche fossero ampie se comparate con quelle delle altre repubbliche italiane, la cittadinanza venne severamente ristretta ai soli discendenti maschi dell’aristocrazia ereditaria, che non arrivavano nemmeno alle duemila unità.
Occorre tuttavia ricordare che le assemblee cittadine delle antiche repubbliche, sebbene piccole, erano raramente così omogenee da scongiurare gravi conflitti politici. In tal senso, anche allora la pratica politica era lontana dall’ideale. L’evidenza storica mostra che la vita politica nelle Città-Stato, Atene inclusa, non era molto migliore di quella di oggi: spesso brutale, faziosa, spietata e perfino letale. Leggendo la storia dei piccoli Stati, James Madison era giunto alla conclusione che l’esistenza di fazioni fosse la rovina della repubblica.
Più recentemente Ernesto Rossi, uomo politico liberale (è stato co-autore del Manifesto di Ventotene), prova che la polemica nei confronti dei partiti è una polemica che nasce sin dagli albori del regime post-fascista e non può non essere annoverata dalla tradizione liberale. Non si tratta, perciò, di una polemica eversiva ed antidemocratica. Rossi infatti scrive: «Le grandi masse non si conquistano con i ragionamenti, ma facendo appello agli istinti e ai sentimenti più elementari, con i metodi di imbonimento con i quali vengono indotte a entrare nel baraccone delle meraviglie, ad affollare la piazza in cui è impiccato un “traditore del popolo”…: slogan di poche martellanti parole, cartelloni a colori piatti, promesse irrealizzabili, suoni di trombe, sventolii di bandiere» (“Le serve padrone” da Il Mondo 24/06/1950)
Secondo Robert A. Dahl (3), l’esistenza di interessi differenziati implica l’esistenza di differenti interpretazioni del bene pubblico o comune, ovvero di differenti beni pubblici. Solamente le società di piccole, se non di piccolissime dimensioni, possono coltivare una visione unitaria del bene pubblico, come si ritiene sia stata coltivata dagli Ateniesi del V secolo a.C., ma anche da Jean-Jacques Rousseau che, sulla base di quella esperienza, ha continuato a sostenere (sia pure con qualche dubbio) che una democrazia può rimanere tale solamente se di piccole dimensioni. Questa visione è stata radicalmente messa in discussione, per la prima volta nella storia, nel dibattito che si è svolto all’interno della Convenzione costituzionale di Filadelfia e che ha portato, quindi, all’elaborazione della (seconda) Costituzione statunitense del 1787.
Stante ciò, un Veneto indipendente composto da circa cinque milioni di abitanti appare a noi la dimensione equilibrata per contemperare le varie istanze della democrazia, a patto che ci sia un giusto bilanciamento tra quella “rappresentativa” e la “diretta”, da attivarsi, però, quest’ultima con semplicità e tempestività, senza complesse operazioni preliminari e burocratiche, ogni volta che le circostanze lo impongono. In fondo i nostri antenati non disponevano dei mezzi tecnici di cui attualmente possiamo disporre.
Si tenga presente che nel lungo periodo del confronto ideologico, nessun attore partitico ha voluto introdurre i vincoli derivanti dalla democrazia diretta, sia perché non ne comprendeva l’importanza e sia perché ne temeva le conseguenze principalmente su di sé. Le regole e le istituzioni democratiche sono state considerate come accorgimenti strumentali, per favorire l’uno o l’altro attore partitico, e non già come assetti giustificati per la loro valenza universale. Come stupirsi che l’Italia non abbia ancora una legislazione sul conflitto d’interesse (così da impedire la coincidenza tra gli interessi economici e quelli politici); oppure una legislazione che regolamenti il potere di ricatto di alcuni gruppi d’interesse funzionale, potere di ricatto che ne incrementa la capacità contrattuale a danno però dei diritti dei cittadini; oppure una legislazione che favorisca una piena competizione del mercato, intaccando le posizioni di monopolio o di rendita, così consentendo un continuo intreccio tra monopoli economici, bancari e finanziari e interessi politici? Forse, la riflessione di Robert A. Dahl può fornire alcune utili indicazioni a coloro che, in Italia, si sono posti nella prospettiva di dare vita a una Political economy democratica: ovvero a una reazione tra economia e politica coerente (almeno) con le esigenze basilari di una democrazia poliarchica.
Per quanto riguarda la Poliarchìa (che non coincide pienamente con la democrazia) si tratta di una forma di governo in cui il potere politico è esercitato con pari autorità da una pluralità di soggetti politici. Il termine poliarchica fu introdotto da J. Althusius, nell’ultimo capitolo della sua Politica methodice digesta (1603), per distinguere le varie forme di governo a seconda che il potere sia monarchius (cioè detenuto da una sola persona) o polyarchius (cioè detenuto da più persone), usando una terminologia che è stata poi resa familiare da R. A. Dahl (4) il quale, elabora di contro alle teorie che egli considera tradizionali della democrazia il concetto di democrazia poliarchica. Per essa si intende un modello di democrazia pluralistica articolato sulla diffusione del potere politico (e dei relativi “contro-poteri”) all’interno della struttura sociale.
E c’è, ancora, la politica dell’iper-egoismo. Più specificatamente, sono due le condizioni economiche che favoriscono la politica dell’iper-egoismo. La prima è la mancanza di crescita economica: senza un valore aggiunto da dividere il gioco politico è infatti a somma zero – se vinco io, perdi tu e se perdi tu, vinco io. Alcuni osservatori hanno definito in questo modo la vita politica in Argentina nella parentesi democratica tra la fine del peronismo e la dittatura militare. La seconda condizione, ben illustrata dai casi dell’Italia e del Giappone, è la combinazione di un alto tasso di crescita economica con l’iper-egoismo nella vita politica. Questa combinazione è ottenuta trasformando le elezioni e la vita parlamentare in uno spettacolo finanziato dai sussidi del mondo industriale. In Giappone, la politica economica e i programmi di intervento pubblico vengono formulati e attuati da una burocrazia meritocratica indipendente dalle elezioni, dal Parlamento, dai partiti, ma soggetta alle pressioni di gruppi di interesse, anche di matrice mafiosa. L’Italia, almeno fino alla decimazione della classe politica post-bellica, sembra essere stata governata da una cleptocrazia. Per di più, in entrambi i paesi, la classe politica è stata usata dalle (e ha usato le) maggiori organizzazioni criminali. E in entrambi i paesi, in particolare in Italia, c’è stata un’ondata di rifiuto popolare della politica indecente e degradata dell’iper-egoismo, che potrebbe condurre, se già non lo sta facendo, a dei cambiamenti autoritari.
L’indipendenza del Veneto, come di qualsiasi altra area dello stivale, si potrà ottenere non per mezzo di singolari associazioni elettoralistiche formate da movimenti sedicenti indipendentisti diretti da transfughi della peggiore partitocrazia italiota. Né è possibile essere così ingenui da pensare che sarà possibile, attraverso un’assemblea regionale, avviare un processo che porti all’indipendenza. Su questo stesso giornale, di recente, è stato scritto: «Non vogliamo speculazioni meramente elettoralistiche – ha dichiarato Valdegamberi – ma sostenere un progetto serio sul quale chiediamo che le singole forze politiche esprimano la loro posizione…» Ebbene, siamo desolati per il fatto di non aver ancora potuto leggere un progetto per un nuovo assetto istituzionale, o patto, o foedus largamente condiviso dalle popolazioni alle quali questi uomini politici si rivolgono. Costoro spesso citano l’indipendentismo scozzese; ma omettono o ignorano che il 18 settembre 2014 gli scozzesi andranno a votare per la loro indipendenza ben sapendo come saranno le nuove istituzioni. Lo Scottish National Party, infatti, ha elaborato, e più volte aggiornato, con il contributo di oltre 400 associazioni autoctone, un “Libro Bianco” [LEGGI QUI] in proposito. Dove si può trovare qualcosa del genere a cura degli odierni indipendentisti aspiranti al Consiglio regionale veneto?
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NOTE:
(1) E.E. Schattschneider, The Semisovereign People. A Realist’s Vieu of Democracy in America, introduzione di D. Adamany, The Dryden Press, Hinsdale 19752 (prima edizione 1960), p. 82.
(2) Robert A. Dahl Toward Denocracy: A Journey, 1997, IGS Press, Berkeley, California
(3) Idem c.s.
(4) Robert A. Dahl, in A preface to a democratic theory (1956)
Fonte: http://www.lindipendenzanuova.com/la-virtu-civica-e-lindipendentismo-veneto/
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