lunedì 19 dicembre 2016

La morte vicina secondo Pirandello. L’ “Uomo dal fiore in bocca” di Gabriele Lavia

La sala d’aspetto di una vecchia stazione illuminata debolmente da due o tre lampadari, una vetrata da cui filtra una flebile luce notturna, rumore di pioggia e di tuoni, un grande orologio senza lancette.

E’ la scena firmata da Alessandro Camera per L’uomo dal fiore in bocca … e non solo, il nuovo spettacolo di Gabriele Lavia, regista e interprete insieme a Michele Demaria e Barbara Alesse.

Una scena imponente, retta da una struttura in legno di pioppo alta nove metri e il pavimento composto da novantadue tasselli in abete decorato, realizzata interamente nei laboratori del Teatro della Pergola, che racconta di una produzione, anzi coproduzione, generosa, molto generosa, tra Fondazione Teatro della Toscana e Teatro Stabile di Genova.

Ma sarà lo spettacolo a placare sul nascere le ire di noi devoti della spending review, che a torto o più spesso a ragione lamentiamo l’iniqua distribuzione dei fondi pubblici.

Poiché è innegabile che questo lavoro che parla di morte sia un vero godimento, come un’aragostella in tempi di crisi.

Un atto unico di un’ora e venti in cui la vecchia signora congiura non vista, eppure saputa, attraverso discorsi che potrebbero sembrare il frutto di una mente scaramantica, un po’ folle, che con lei cerca confidenza manipolandola con le parole nella speranza di allontanarla.

E invece resta lì, dentro la bocca che la racconta, dove si è annunciata con una parola soave, che suona dolcissima, che è anche promessa di ritornare. Epitelioma, eccolo il fiore portatore di morte.

L’uomo dal fiore in bocca, che Pirandello ha tratto dalla sua novella La morte addosso, è una disincantata digressione sulla morte dal punto di vista del morituro, che si consuma in un delirio affabulatorio innescato dalla presenza di un secondo uomo, l’uomo pacifico, interlocutore retorico di un soliloquio vorticoso, che Lavia nutre anche attingendo ad altre novelle.

Le riflessioni esistenziali sulla vita e sulla morte (“perché devo vivere se poi devo morire?”), sul finito e l’infinito, il verosimile e il vero, il piccolo e il grande (“l’uomo non è mai così piccolo come quando si sente grande”) chiamano dentro innanzitutto quelle sulla donna, che in questa messa in scena rappresenta l’ultimo baluardo di vita, silenziosa e sfuggente dietro la vetrata della sala d’attesa, ma più che mai pervasiva.

Una vita che si affaccia per soccorrere, forse, ma che non consola, e allora si racconta facendo i gigioni, o la si scruta non visti, il dito puntato senza fare rumore, oppure si lascia che scivoli via ché non si può trattenere la vita che scorre, e ci si sofferma a sviscerare un dettaglio, immobili, osservando un commesso che confeziona un pacco regalo.

Sono tanti quelli, coloratissimi, allineati sulla lunga panca di una buia sala d’aspetto. Li teneva due a due per ogni dito l’uomo pacifico quando gli si è parato davanti, prima di perdere l’ultimo treno.

Uno spettacolo curato e accudito con la maniacale precisione di Lavia, dalle scene citate alle musiche e i suoni di Giordano Corapi, ai costumi di Elena Bianchini, alle luci chiaro-scure di Michelangelo Vitullo, con un bellissimo restringimento sulle mani nella scena di inizio, dove anche il corpo spariva nel buio.



Fonte: http://www.unita.tv/focus/la-morte-vicina-secondo-pirandello-l-uomo-dal-fiore-in-bocca-di-gabriele-lavia/

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